Quale migliore cassetta degli attrezzi per un aspirante e voltenteroso scrittore pronto al sacrificio, se non una sequela di classici da cui attingere per capire – se si vuole andare veramente in fondo alla costruzione/creazione della propria opera – la strada da percorrere.
Minimum Fax nella collana “Filigrana”, dopo i numerosi vademecum per indicare o scoraggiare chi si avventura nel territorio del diavolo (come il titolo del volumetto che raccoglie gli scritti con cui Flannery O’Connor esorta a scrivere narrativa solo se si è disposti a rotolarsi nella polvere), tra cui “Niente trucchi da quattro soldi. Consigli per scrivere onestamente” di Raymond Carver e “Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato” di Francis Scott Fitzgerald, pubblica ora “Seminario sui luoghi comuni. Imparare a scrivere e (a leggere) con i classici” di Francesco Pacifico.
Perché meglio di qualsiasi scuola di scrittura creativa c’è solo la frequentazione assidua delle pagine che hanno preceduto il salto nel vuoto che si accinge a compiere ogni inesperto scrittore. Solo guardandosi indietro, andando a riaprire “L’educazione sentimentale” di Flaubert, frequentando le pagine di Tolstoj o di Cechov si potrà comprendere quanta fatica, dedizione, lavoro su sé stessi, scelta delle parole, suono della frase siano necessari prima della scelta ambiziosa di scrivere.
La selezione dei brani fatta da Pacifico, come scrive lui stesso nella prefazione, lo ha aiutato a liberarsi dei momenti di impasse creativa. E senza ricorrere a «storytelling», a «strutture narrative» oppure ad alchimie di creative writing, si è guardato indietro e ha compiuto il gesto più naturale che debba compiere uno scrittore: andare a bottega. Ricopiare pagine intere dai classici. «Ricopiare un paragrafo di Flaubert è puro autoregalo. La cosa non ti trasforma in Flaubert, ma lascia qualcosa».
Se lo scrittore ha una visione, un’idea, «delle melodie in testa», deve andare a cercarsi un buon legno per farle suonare. E il materiale è lì, nella grande letteratura. Lo ha fatto anche Italo Calvino attraverso il protagonista di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, mise en abîme della crisi che lui stesso visse negli anni Settanta: ricopiava ossessivamente l’incipit di “Delitto e castigo”. C’è bisogno di un maestro che dia il la, dell’arrotino che affili le lame.
La selezione degli autori che Pacifico indica come i classici da saccheggiare va da Gogol, con la descrizione della Prospettiva Nevskij di San Pietroburgo, imprescindibile per chiunque voglia scrivere di una via affollata in preda allo struscio, al confronto con l’anima diabolica e umana troppo umana del Mickey Sabbath di Philip Roth, assetata di sesso e vita.
Un seminario che è come una playlist, con scatti furiosi e improvvisi, e sempre sorprendente. Dall’asciuttezza di Gogol si salta alle contorsioni verbali del mondo troppo complesso di Gadda, per ritrovarsi subito dopo nel distacco chirurgico del romanzo si formazione di Coetzee. C’è un brano di “Underworld” di DeLillo esemplare per affinare sguardo e idee sulla direzione che ha preso la società occidentale; ma anche un repentino salto nell’Ottocento di George Eliot, con un paragrafo di “Middlemarch”, che è un po’ come una canzone di ruvido e vigoroso blues, prima che la forma canzone diventasse scintillante, iperprodotta, catino di esperimenti e contorsioni, proprio come il romanzo.
Se ci sono libri da comodino, ai quali aggrapparsi prima del sonno, quello di Pacifico è un libro da scrivania, da scrittoio, che qualsiasi scrittore deve sempre avere a portata di mano per ricevere la giusta intonazione.
P. L. R.