Albert Camus, straniero nell’assurdità dell’esistenza
Quando si legge “Lo straniero” di Albert Camus si è proiettati in uno strano silenzio. Fin dalla prima, famosa frase, “oggi la mamma è morta”, è chiara la cifra stilistica dell’assurdo. Mersault, il protagonista, non parla né piange; al funerale della madre fuma una sigaretta. Non ci è dato sapere il perché: non è importante. Ogni gesto di Mersault è un universo a sé, intagliato in quelle frasi che Sartre giudicava perfette, delle isole, e l’apparenza sensibile che ne affiora vale più dei principi esplicativi.
Termina la prima parte. Il deserto, il terribile sole a picco, lo sciabordio delle onde: l’apice della sensualità mediterranea, il primo e fatale rumore del libro. Quattro secchi spari. Mersault uccide un arabo. Comincia il processo, di nuovo nel silenzio: la solitudine della cella, l’impossibilità di capire.
Mersault potrebbe salvarsi. Solo, non ha da offrire alla Legge la consequenzialità che essa richiede. Il rifiuto di falsificare le realtà emotive è il nocciolo dell’assurdo di Camus: un urlo selvaggio che non ha bisogno di essere emesso, la cui forza esplode per colui che tende l’orecchio a questo insolito silenzio.
Ai redentori viene offerta una verità negativa, la sola che conti per Mersault. Il suo grido interrompe per l’ultima volta il silenzio del libro. La catarsi è avvenuta: “come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo”.
(A. V.)