The Cure – 4:13 Dream

Ci sono band che oltre a fare della semplice musica si impongono nell’immaginario comune ad un livello simbolico che va ben oltre l’effimera venerazione che da sempre domina la musica pop. Certe band riescono invece nella più ardua impresa di raggiungere una compiutezza estetica capace di competere con la “cultura alta”. Questi sono i Cure di Robert Smith, che  rientrano nella cerchia di artisti che hanno avuto il merito di rendere il rock un fenomeno al di là del semplice (e rivoluzionario) significato sociologico.
Ci sono riusciti con testi romantico-esistenziali di Robert Smith, e grazie ad una musica che è una gamma di emozioni che nella vita reale si affida ai gesti, agli occhi o al semplice tono della voce.

Cambiando di continuo la propria pelle e rinascendo più volte, è dal 1976 che i Cure cavalcano i palchi di tutto il mondo. Oggi tornano con un nuovo album, “4:13 Dream”, che pur non presentando alcuna novità dal punto di vista prettamente musicale, mostra una sincerità di intenti disarmante. Soprattutto riesce a far dimenticare il passo falso del precedente e omonimo album, che pagava il pegno di una pessima produzione scelta per mettersi al passo coi tempi e non per un’autentica ispirazione artistica.

Come negli ultimi live, anche in “4:13 Dream” la formazione si presenta senza tastierista. Il suono è più ruvido, e in alcuni episodi ricorda i momenti più viscerali di “Wish”. Certo, non mancano i passi falsi come le imbarazzanti Freakshow e It’s over, ma il risultato generale è positivo, grazie soprattutto a Hungry Ghost e la splendida canzone di apertura, Underneath the Stars che rievoca i fasti di quello che rimane l’ultimo vero capolavoro della band, “Boodflowers” del 2000.

(G. d. B.)