Manhattan di Woody Allen

“New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata.”
Ecco le parole scelte da Ike per l’incipit del libro, e con le quali Woody Allen inzia il suo inno alla città sempre viva a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Come Giove, che nel sistema solare è circondato da satelliti, nel film, Ike, protagonista e alterego del regista, è accompagnato da una serie di personaggi appartenenti alla stessa categoria: gli intellettuali tra i trenta e quaranta, con una buona posizione sociale, ma “privi di integrità individuale che li porta a cercare facili strade”.
A fare eccezione è Tracy, una diciassettenne spontanea e determinata la cui lentezza emerge sulla caotica realtà metropolitana e da cui, in qualche modo, si individua l’unica fonte di ottimismo.
Considerando la ricca produzione cinematografica di Woody Allen, e la sua grande capacità distintiva di produrre film di vario genere mantenendo uno spessore intellettuale sempre elevato, e reinventandosi altrettanto bene come attore, possiamo considerare che la pellicola in questione, datata 1979, sia una delle opere nelle quali si riscontra una precisa armonia tra le parti, rendendone la visione gradevole nonostante l’ onnipresenza di dialoghi impegnati.
Un film ricco di vicissitudini amorose al termine delle quali, placate le infatuazioni mentali e le illusioni, Allen si interroga ad alta voce sul perché valga la pena vivere, rispondendo: “Beh, esistono al mondo alcune cose, credo, per cui valga la pena di vivere. E cosa? Ok. Per me… io direi… per Groucho Marx tanto per dirne una, e Willie Mays e… il secondo movimento della sinfonia Jupiter… Louis Armstrong, l’incisione Potatoehea Blues… i film svedesi naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili… mele e pere di Cézanne, i granchi di Sam Wo, il viso di Tracy.”

(J. H.)