Elvis Presley – It's now or never

Dal 1954 al 1958 regna. È più che meritata la consacrazione che ancora oggi prevale: Elvis, The King. Perché squassò l’equilibrio sonnolento di tanti giovani che non avevano mai visto un bacino muoversi in quel modo, al ritmo di rock and roll. Puro, semplice, carnale, coinvolgente, incendiato da un giovanottone cresciuto nella sperduta Tupelo. Regna dal primo istante che appare alla tv cantando Heartbreak Hotel, Jailhouse Rock. Le ragazze impazziscono ben prima degli isterismi dei Beatles. I ragazzi vogliono essere ribelli e sensuali allo stesso modo di Elvis. I genitori tremano. La società sottovaluta la carica rivoluzionaria del rock and roll. Dura poco. Elvis viene arruolato, e va militare in Germania. Due anni sono tanti, e in molti lo dimenticano. Il manager padrone e sanguisuga – colonnello Tom Parker – fa di tutto perché Elvis rimanga nel cuore di chi ancora se lo ricorda negli anni d’oro della Sun Record e delle incisioni della RCA. Ma il colpo è grosso. É come se Elvis, e la sua carica eversiva fosse sfumata: semplicemente vedendolo con l’uniforme addosso. Molti restano delusi, altri si rifanno subito con Beatles e Rolling Stones. Iniziano così i passi falsi, le cadute di Elvis. Come It’s now or never: O’ sole mio di Capurro tradotta e cantata in inglese con un florilegio di archi e suoni dolciastri. Sembra più per un pubblico di vecchiette e per nostalgici della vecchia patria lasciata a bordo dell’Andrea Doria. Elvis smette il ciuffo, i capelli si abbassano e fanno pendant con lustrini e tute colorate. Si spalancano le porte di Las Vegas, e lui si trascina, stancamente, sempre più gonfio di psicofarmaci verso il declino del re.