Convince e colpisce “Il Divo” di Sorrentino

Giulio Andreotti è l’asse gravitazionale della vita politica italiana. Era presente all’Assemblea Costituente, a cui partecipò a soli 29 anni.
Classe 1919, Andreotti, ha ricoperto più volte la carica di Ministro (Interni, Esteri, Tesoro) e ben sette volte la carica di Presidente del Consiglio, fino a diventare Senatore a vita nel 1991.
Una figura misteriosa e imperturbabile che il regista de “Il Divo”, Paolo Sorrentino, ha voluto rappresentare in 110 minuti di film maestosamente diretto che gli è valso il Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes.
L’attore protagonista è lo straordinario Toni Servillo, di cui si riconoscono a stento gli occhi sotto la trasformazione operata per renderlo Guilio Andreotti.
La camera è schiacciata su quei tratti riconoscibilissimi, e quanto più preme sul personaggio più lui rimane immobile, perennemente pacato, come se tutto gli scivolasse addosso, come la lunga sequela di omicidi e di suicidi che la regia non lascia intendere ma mostra nella sua crudezza.
Il film inizia con un glossario: Brigate Rosse, Democrazia Cristiana, Loggia P2, Moro Aldo e ripercorre i fatti della storia italiana degli ultimi quarant’anni attraverso Andreotti che tiene le fila direttamente o indirettamente di tutto ciò che è accaduto nel Paese.
Accanto a lui Paolo Cirino Pomicino (un convincente Carlo Buccirosso), Aldo Moro, Totò Riina, Giuseppe Ciarrapico, ma anche la moglie Livia e la storica segretaria Enea, due figure femminili chiave nella vita dello statista. 
Il ritratto è tratteggiato attraverso gesti metodici e reiterati, l’aspirina per il perenne mal di testa, i movimenti delle mani, i passi lenti, le battute ironiche. Solo sul finale emerge l’uomo Andreotti, con un lungo monologo in cui – sconcertante per la figura curva che conosciamo – usa dei toni accesi. “Le reazioni incontrollate ci imbarazzano ma ci confortano perché ci ricordano che siamo umani”  questa è la frase emblematica della figura di Andreotti tratteggiata da Sorrentino.

(M. S.)