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The Cure live at Palalottomatica

In attesa della pubblicazione del nuovo album previsto per la fine della primavera, i Cure tornano in Italia a quattro anni dalla loro ultima esibizione.

Quella di Robert Smith è una delle band inglesi più importanti della storia della musica. Album come Boys don’t cry, Pornography e Disintegration hanno rappresentato per un’intera generazione delle vere e proprie bibbie d’amore e disperazione. Facile quindi immaginare un Palalottomatica a Roma, il 29 febbraio, stracolmo. 

Come già nell’ultimo tour, nella formazione della band mancavano le tastiere, tratto fondamentale del sound dei Cure. Risultato: un suono completamente incentrato su basso-batteria-chitarra come nella migliore tradizione rock. Aggressivo, viscerale, a tratti ipnotico.

Il concerto inizia con la dolcezza di Plainsong dall’album Disintegration, per poi passare a Prayers for Rain. 23 in totale le canzoni del main set.

La preghiera di Robert diventa un mantra ripetuto dal pubblico intero. La chitarra tra le sue mani sembra un’arpa di un antico cantore greco.
Pictures of you, una delle più belle canzoni d’amore di sempre, è cantata a squarciagola, Friday I’m in love, In Between Days e Just Like Heaven sono ballate con allegria.

Sembra di essere tornati a un alternative-party degli anni ’80. Il set principale si chiude sulle note di due inni, One Hundred years e Disintegration. Ma il dolore rende più nobile l’animo umano e il pubblico risponde con affetto. La musica è il più grande lenimento del dolore.

Segue un primo encore con brani interamente tratti dal secondo album, Seventeen Seconds. I ritmi si dilatano. La catarsi è al suo culmine.
Il secondo encore presenta i pezzi più pop della discografia, mentre il terzo e ultimo propone brani tratti dal primo album, Boys don’t Cry.

Robert sembra un’antica divinità greca, un novello Dioniso e il pubblico le sue baccanti sfrenate in canto e danza. Il Rock’n’Roll non è mai stato così vicino a un’esperienza mistica.

(G. d. B.)

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