John Williams e il miracolo della banalità
La prima domanda che ci si pone appena si finisce di leggere Stoner (Fazi Editore) di John Williams è come sia possibile che la storia di un personaggio sostanzialmente inattivo e mediocre riesca ad essere così interessante.
Stoner insegna all’università del Missouri, ma non è benvoluto; si sposa, ma il suo matrimonio è un fallimento; ama sua figlia, ma non riesce a starle vicino fino in fondo. È un anti-Gatsby, un eroe della staticità e della resistenza, stoica e virtuosa o, più spesso, solo passiva.
Se è vero che i romanzi più apprezzati sono quelli avvincenti, con una trama ricca di personaggi interessanti, perché la storia di Stoner (il nome sembra già essere in antitesi con tutto ciò che è vitale) dovrebbe mai riuscire a colpire chi legge?
Perché è realistica, autentica. E ciò che rispecchia la vita di ognuno di noi, per quanto banale, ci risulta più vicino. Quanto più un protagonista è descritto nelle sue azioni quotidiane, nei suoi dilemmi, nelle sue difficoltà, nelle sue incapacità, tanto più ce ne sentiamo attratti.
Julian Barnes scrisse sul The Guardian che in questo romanzo anche la tristezza è positiva, perché “suona più pura, più vicina alla reale tristezza della vita”. E il lettore, pagina dopo pagina, vuole scoprire se in questa tristezza il protagonista riuscirà a conquistare un po’ di felicità. Lo farà, ma a modo suo: capisce che il segreto è aspettare con pazienza che arrivi l’autunno, la fine di tutto, ma nel frattempo amare la vita e coglierne il più possibile.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce/per farti meglio amare chi dovrai lasciare a breve, recita il sonetto shakespeariano citato tra le pagine, ed è qui che è racchiuso tutto il senso del romanzo.
Evviva Stoner. Evviva il miracolo della banalità.
Chi. Mel.