“Cara Milena…”. Kafka e la cronistoria di un amore

«Ciò che tu sei per me, Milena, per me al di là di tutto il mondo in cui viviamo, non è detto nei quotidiani brandelli di carta che ti ho scritto».

E forse Kafka non riuscì mai a dire davvero ciò che Milena era per lui. Prigioniero delle sue paure e attanagliato dal desiderio, mai realizzato appieno, di essere compreso ed amato, egli scrive, con le Lettere a Milena (Mondadori), la cronistoria di un amore complesso, ma altrettanto potente.

Scrittrice e traduttrice dei racconti di Kafka in ceco, Milena era per Kafka un fantasma di carta, uno specchio, un coltello con cui frugare dentro se stesso. A questa figura luminosa e pura, appassionata e libera, che giunse inattesa nella sua vita, Kafka riuscì solo ad opporre la propria stanchezza, non essendo in grado di far entrare nel suo isolamento un altro essere umano. L’età, la malattia, l’ebraismo dovevano rendere ancora più difficile quello che era un rapporto con il mondo già abbastanza complesso.

Quasi infastidito dallo sforzo di Milena di tirarlo fuori dalle tenebre nelle quali riusciva ad essere se stesso e da cui sembrava non voler uscire, Kafka arrivò al punto di vietare a se stesso e a Milena la corrispondenza, perché lo scambio delle lettere non poteva causargli altro che tormento.

Franz era incapace di amare. E, del resto, a che serviva scrivere lettere, se quei baci scritti non potevano arrivare a destinazione perché “bevuti dai fantasmi lungo il tragitto?”.

Quella delle Lettere è una scrittura kafkiana inedita, perché più intima del solito, e che riesce a rivelarsi perfetta pur nel senso di autodistruzione e ansia che percorre le singole lettere. A tratti epigrammatica, a tratti più distesa e narrativa, ma sempre armonica ed elegante, essa riesce, nella sua meravigliosa delicatezza, a rendere trasparenti i pensieri del suo autore, a farceli quasi sfogliare, facilitandoci il compito di scovarli sotto tanta bellezza.

Chi. Mel.