AIS. Un convegno sui “Processi ed Istituzioni Culturali” e la “Sociologia dell’Educazione”

«L’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali». (da Nell’educazione un tesoro, Rapporto della Commissione internazionale per l’educazione del XXI Secolo, discorso all’UNESCO di Jacques Delors).

Secondo Delors l’educazione è la via principale per raggiungere ideali di pace, libertà e giustizia sociale. I tipi di educazione che egli menziona sono quattro: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme e imparare a essere. In tal senso, un’educazione che si limiti a sviluppare uno solo di questi aspetti, è inadeguata per lo sviluppo armonioso e completo di un essere umano. In omaggio alla tradizione italiana di Maria Montessori e di don Lorenzo Milani, ma anche alla tradizione antroposofica di Rudolf Steiner, ai lavori di John Dewey, Paulo Freire e di Jean Piaget possiamo riassumere tutto questo in due parole: Educare alla libertà. Cosa significa educare alla libertà oggi, nella società contemporanea attraversata dai crescenti processi di globalizzazione e integrazione forzata, sconvolta dai conflitti per le risorse economiche fondamentali (come l’acqua, la terra, le risorse energetiche)? I recenti flussi migratori portano ad un rimescolamento di culture e tradizioni che improvvisamente si trovano in contatto ad una velocità e con una densità – soltanto pochi decenni fa – nemmeno immaginabili. Le guerre, le devastazioni, il terrorismo comportano per moltitudini crescenti della popolazione mondiale o vere e proprie “espulsioni” (Sassen 2014) o dolorosi spostamenti in cerca di pace e di condizioni di vita dignitose, per cercare rifugio in altri paesi molto lontani da quelli di origine. In questa situazione i conflitti culturali, i processi discriminatori, i razzismi rappresentano ulteriori e sempre più elevati fattori critici che vanno ad aggiungersi a quelli della società del rischio e contro i quali solo l’educazione e la cultura possono immunizzarci.

Paradossalmente, tuttavia, rispetto alle retoriche europee delle education policy, questa frammentazione della cultura e diversificazione della stessa in sfere separate vengono sempre più appropriata da logiche di impresa come evidenziato dalla letteratura sul “nuovo spirito del capitalismo” (Boltanski, Chiapello 1999) e sul “finanzcapitalismo”, come ricordato fin nel suo ultimo lavoro da Gallino (2015). Ciò richiede uno sforzo interpretativo per vedere anche nell’education un’analoga frammentazione e per evidenziare piuttosto come siano incapsulati i tempi e i luoghi dell’istruzione formale. Nel mentre quest’ultima, infatti, si standardizza progressivamente (dai punteggi dei test alle classifiche delle scuole, dai crediti formativi agli accreditamenti dei corsi universitari, alla valutazione fin troppo proceduralizzata di ricerca e carriere nell’università, ecc.), con- centrandosi sulle competenze prevalentemente cognitive, sono altre le sfere sociali, come quelle del consumo, del tempo libero, della spettacolarizzazione, ecc., in cui si allargano esponenzialmente le occasioni di sviluppo di competenze, emotive, relazionali, in una parola: trasversali. Da un lato, quindi, le culture dell’educazione che si stanno affermando si ispirano sempre più al paradigma del capitale umano, all’investimento dei giovani e delle famiglie negli imprenditori di se stessi – e spesso precari per se stessi come nel caso dei NEET –, e alla quasi-mercatizzazione dell’offerta di istruzione scolastica ed universitaria; in tal direzione, ampliando gli spazi di interventi ‘culturali’ per il privato, anche filantropico, e spingendo sulla privatizzazione endogena nel pubblico (secondo i dettami del New Public Management), aderendo alla pretesa per-formativa di politiche educative di matrice neo-liberale. Dall’altro lato, le occasioni e le formazioni che ‘interessano’ le giovani generazioni si dis-locano sempre più verso un altrove di socializzazione e di socialità che nella rete e nelle connessioni inter-mediali trovano spazi-risorse per la produzione di immaginari culturali e dello sviluppo di competenze parallele, se non alternative, a quelle richieste da scuola e università. La lettura troppo spesso ottimista, tuttavia, sul ruolo delle ‘nuove’ tecnologie della comunicazione e dell’informazione tende a dimenticare come queste catturino in misura crescente gli stessi desideri in-formativi, di singolarità e di espressione di creatività delle nuove generazioni.

Così, una sfida comune per le sociologie della cultura e dell’educazione diviene quella di ricercare, indagare, svelare come i fare culture e i fare educazioni si intreccino mediante un labirinto di possibilità: queste vanno dai circuiti delle istituzioni e dei network della governance neo-liberale alle eccedenze di singolarità, di “alterità creative” (Cocco, Szaniecki 2015), in una parola alle esperienze di contro-condotta ed alle richieste di libertà che emergono nelle pratiche e nelle eterotopie culturali ed educative della società globalizzata.

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