A Capodimonte c’è “Carta Bianca”

La mostra Carta Bianca, ideata Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte e Andrea Viliani direttore del museo Madre di Napoli in collaborazione con la casa editrice Electa, è stata immaginata come una celebrazione del museo contemporaneo, uno spazio e un tempo complesso, polisemico, polifonico dove si organizza la memoria e si narra la Storia.

La Storia è interpretazione permanente di molte storie singole, che riflettono il presente per provare ad agire sul futuro. Una semplificazione frequente consiste nel considerare un museo come una grande e omogenea lezione magistrale; ma appena ci si addentra nella sua materia, cioè si scopre l’impostazione delle sue collezioni, si capisce che la lezione magistrale è fatta di molteplici elaborazioni, dovute alla natura necessariamente incompleta della collezione, ai vincoli posti dalla progettazione architettonica, dalla conformazione e sequenza delle gallerie, dalla necessità di conservare materialmente le opere d’arte e i documenti, e a molte altre considerazioni che spesso sono incidentali. In un museo d’arte il filo conduttore è la storia dell’arte, ma la storia dell’arte può essere scritta in molti modi diversi. A Capodimonte, seguendo la lezione dello storico Francis Haskell, si è scelta una visione della collezione che privilegiasse il collezionismo, l’opera d’arte legata al territorio e la cronologia. Una scelta significativa del nucleo originale del museo è di certo la collezione Farnese, giunta a Napoli con i Borbone. Ma né la collezione Farnese, né il museo, ripensato e riplasmato numerose volte dal 1957 in poi, sono incapsulati in un’unica semantica.

Nel passato scrittori come André Malraux, Umberto Eco e Orhan Pamuk, o artisti come Marcel Duchamp e Marcel Broodthaers, o curatori come Harald Szeemann, ognuno a loro modo, hanno provato a ripensare la logica del museo. Seguendo il loro invito ideale abbiamo deciso di approfondire la semantica dello sguardo ed aprire le collezioni alla diversità delle esperienze. Per questo abbiamo invitato dieci visitatori ideali – intellettuali, artisti, collezionisti imprenditori, ognuna e ognuno con un proprio universo indipendente di saperi, interessi, inclinazioni sensibilità e formazione, anche lontani dall’universo del museo – a raccontarci, assecondando il loro sguardo, un’altra visione e un’altra storia del museo, dell’arte e del mondo.

Sono dieci sale nelle quali ogni “curatore” invitato ha avuto “carta bianca” per scegliere da una a dieci opere tra le 47mila della collezione di Capodimonte (quadri, sculture e manufatti). Hanno potuto immaginare in libertà assoluta l’allestimento e consegnarci la propria interpretazione del filo conduttore proposto; con l’unico obbligo di argomentare la loro scelta e il senso della loro sala/mostra. Ogni interpretazione è quindi raccontata in una video intervista, agibile attraverso un’applicazione scaricabile dal cellulare scannerizzando le fotografie dei curatori poste all’ingresso di ogni sala.

Con lo sguardo sensibile e molteplice dei nostri dieci curatori, Sylvain Bellenger e Andrea Viliani invitano il pubblico a riguardare le collezioni di Capodimonte, nel segno della più grande libertà e della propria fantasia, per proporre sui social media del museo l’undicesima sala di Carta Bianca, scegliendo da una a dieci opere d’arte dell’intera collezione. Un’opera d’arte, quando viene contemplata con attenzione, entra nella nostra mente, fa parte di noi stessi, come a volte accade con un racconto avvincente, e aggiunge un’altra vita alla nostra vita. Sarà possibile scoprire, come evoca la mostra Carta Bianca Capodimonte Imaginaire, che ci sono infiniti modi di leggere e di guardare, immaginando.

Hanno accettato la sfida lanciata dal Museo di Capodimonte:

Laura Bossi Régnier, neurologa e storica della scienza Giuliana Bruno, professore di Visual and Environmental Studies, Harvard University Gianfranco D’Amato, industriale e collezionista Marc Fumaroli, storico e saggista, membro dell’Académie française Riccardo Muti, direttore d’orchestra Mariella Pandolfi, professore di Antropologia, Université de Montréal Giulio Paolini, artista Paolo Pejrone, architetto e paesaggista Vittorio Sgarbi, critico e collezionista d’arte, scrittore, docente Francesco Vezzoli, artista

I PERCORSI

La prima sala curata da Vittorio Sgarbi, con il suo sguardo di grande conoscitore e collezionista, racconta l’intreccio della sua biografia storico-artistica con la collezione di Capodimonte. Un percorso che egli definisce ‘né storico né rapsodico, ma interessato, presuntuoso, vanitoso’ tra grandi capolavori del Museo (Lotto, Parmigianino, Guido Reni…) che hanno, in modo diverso, attraversato la sua formazione e la sua personale collezione.

Marc Fumaroli si concentra su una selezione di opere di arte napoletana del Seicento e riflette sul dualismo miseria e povertà, aristocratico e popolare. Il confronto è stretto tra le tele di Bernardo Cavallino – l’eleganza, la raffinatezza, il pubblico colto e aristocratico – e quelle di Jusepe de Ribera e Massimo Stanzione – la pittura ‘popolare’ intesa in senso più naturalistico, di ascendenza caravaggesca.

Paolo Pejrone focalizza il proprio sguardo su paesaggi e vedute, a partire dal tema dell’ombra e dei boschi. Per la propria sala l’architetto ha richiesto di aprire un ‘varco’ in una parete che nasconde una finestra. Il riquadro ricavato, incorniciato e delle dimensioni di una tela, rappresenta uno sbocco naturale della stanza su uno dei più grandi capolavori del Museo: il Real Bosco.

Le scelte di Gianfranco D’Amato, forse tra le più intime, sono ispirate alle sfera emozionale: il piacere e l’amore, ma anche l’odio e la violenza, l’importanza della cultura e della conoscenza. Valori che il collezionista cita, affiancando l’arte antica a quella contemporanea (Carlo Alfano, Louise Bourgeois, Mimmo Jodice), così da confermarne l’universalità.

La scimmia e l’uomo è il tema della sala di Laura Bossi Régnier che torna alla “questione che i filosofi si pongono da secoli: che cosa ci fa umani? Come definire l’uomo rispetto all’animale? Vicina, ma allo stesso tempo infinitamente lontana, la scimmia ci porge lo specchio della nostra animalità”. Le collezioni di Capodimonte offrono numerose occasioni iconografiche, di epoche e stili diversi, per esplorare il rapporto uomo-animale, tra cui alcune rappresentazioni del Settecento di primati travestiti e intenti in attività proprie dell’uomo. Dalle tele di Agostino Carracci e Paolo de Matteis, alla incisione di Giovanni Stradano Caccia alla scimmia, fino ai numerosi esemplari di arte decorativa.

Giulio Paolini crea in occasione della mostra un’opera ad hoc che racchiude idealmente tutte le opere della collezione di Capodimonte. “Mi sono dunque volontariamente astenuto dallo scegliere quelle opere, numerose ed eccellenti, che potevano suggerire tanti imprevedibili ‘dialoghi’ tra buona parte di esse. Ho cioè osservato una sofferta rinuncia alla messa in scena di quel ‘museo personale’ che mi era stato consentito di realizzare per privilegiare invece un punto di vista teorico: formulare una sintesi assoluta, ancorché infondata e insostenibile di un’idea dell’arte”.

La sala di Giuliana Bruno riproduce, in un allestimento concepito e strutturato come una narrazione, l’esperienza personale della curatrice che ha potuto esplorare i depositi del museo, non accessibili al pubblico, e ha riscoperto, come un archeologo dell’emozione del sapere, alcune opere e manufatti connessi agli oggetti della quotidianità tra cui il cibo e il vasellame (integro e in frammenti di maiolica) e alla loro rappresentazione artistica. Ogni oggetto è stato selezionato con un’attenzione particolare ai materiali di realizzazione, alla composizione della superficie, allo stato e agli statuti della conservazione.

Mariella Pandolfi riflette sulla dimensione della temporalità come dissonanza, sul tempo indefinito dell’evento, secondo la definizione di Gilles Deleuze. L’antropologa sceglie quattro opere, scene di lotta o di grande tensione amorosa, che raccontano altre storie oltre a quella del tempo lineare della Storia o del Mito. Racconti che appartengono a un tempo indefinito dell’evento che sfuggono all’evento stesso. In mostra l’enorme arazzo della Battaglia di Pavia e La strage degli Innocenti di Matteo Di Giovanni, Perseo e Medusa di Luca Giordano, Rinaldo e Armida di Annibale Carracci. Al centro della sala una composizione di armi e armature, spade, coltelli e archibugi, un accumulo disordinato che evoca dissonanza e discontinuità.

Una sola è l’opera voluta da Riccardo Muti: la Crocifissione di Masaccio. Da tempo, la piccola tavola, tra tutte le meravigliose opere del Museo, aveva folgorato il Maestro a tal punto da spingerlo a ricercare i motivi di questa ‘attrazione’ nella tormentata storia del quadro e nell’osservazione assidua dell’opera, con gli occhi di chi non è esperto d’arte ma nutre una profonda passione verso tutte le forme dell’arte. Ed ecco che Muti

ci restituisce un’appassionata interpretazione della Maddalena: “La figura che sgomenta di più è questa irruzione della Maddalena. Sembra veramente che nella staticità della Madonna e di Giovanni e del corpo ormai crollato di Cristo questa figura entri furiosamente, imperiosamente nel quadro. Sembra appartenere ad un mondo completamente diverso, al mondo dell’amore, al mondo della passione, anche in un certo modo della passione fisica perché innanzitutto i colori che Masaccio affida alla Maddalena sono in fortissimo contrasto con le altre due figure e con Cristo stesso ovviamente. La Maddalena ha un mantello rosso fuoco ed è insolitamente biondissima con capelli sciolti e sembra provenire proprio dal mondo della passione, verso Cristo, verso il Dio, verso l’uomo. E con le braccia completamente aperte come per voler abbracciare il Cristo morente”. Una pittura, una poltrona, il Maestro Muti ci invita alla contemplazione.

Infine Francesco Vezzoli traccia un percorso che comprende e articola i suoi recenti interventi scultorei e performativi. Dieci coppie di busti (di epoche e materiali diversi) si fronteggiano disposti in un corridoio, instaurando dialoghi basati sugli incroci degli sguardi, in un gioco di incontri impossibili. Aprono la sala un gesso del Canova che raffigura la madre di Napoleone Bonaparte e Apollo e Marsia di Luca Giordano. Chiude il percorso un Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia di Vezzoli: un gruppo scultoreo che si ispira all’antico e al mito ma ironicamente sovverte la filologia, nell’uso dei materiali come nella composizione scenica.

I temi delle 10 sale, l’oscillazione e la determinazione della passione collezionistica plasmano nel loro complesso quest’esperienza ‘’liberata’’ del museo, svelandone le potenzialità interpretative ed evocandone le possibili e multiple narrazioni. Incrociandovi e facendo emergere i tanti punti di vista, Carta Bianca riconosce e mette in mostra ciò che del resto avviene fra il pubblico ogni giorno in visita nelle sale del museo: un’appropriazione personale di un patrimonio di oggetti, valori, storie comuni. Attraverso prospettive diverse e sguardi molteplici proiettati sulla collezione, il progetto ha preso la forma di una mostra polifonica che si interroga sul tema dell’ordinamento e della classificazione museale e, allo stesso tempo, mette in discussione il confinamento esclusivo dell’opera nel territorio della critica d’arte.

Aprire le ‘gerarchie’, abbattere le barriere museali, dare voce anche ad altre discipline e competenze, hanno “imposto” una riconsiderazione dei rapporti tra le opere della collezione – capolavori di livello internazionale presentati in dialoghi inediti – e, in futuro, dei percorsi espositivi delle 126 gallerie di Capodimonte. Le stesse sale del Barocco in occasione di Carta Bianca, hanno visto una rilettura e un riallestimento.

Carta Bianca riporta comunque al centro dell’attenzione il museo, il suo significato oggi, la sua storia e la sua evoluzione per nuove vie. In questo senso, come scrivono Sylvain Bellenger e Andrea Viliani, il progetto si colloca su una linea di continuità con altre riflessioni novecentesche, di curatori, artisti, scrittori, quali il museo senza muri di André Malraux, il museo in miniatura creato da Marcel Duchamp con la sua Boîteen- valise, il Musée d’Art Moderne, Département des Aigles di Marcel Broodthaers, il museo-giardino di Daniel Spoerri con la sua collezione in eterno divenire, il museo delle ossessioni senza fissa dimora di Harald Szeemann, o il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, per citarne alcuni. Musei immaginari, musei in valigia, musei sentimentali, musei ossessione e infine, musei soggettivi. Carta Bianca invita a una nuova semantica dello sguardo.