Boys Don't Cry – The Cure

Il cielo grigio tutto il giorno. Attorno fabbriche che gonfiano l’aria di fumo e non fanno passare la luce. Unico rifugio un pub, fumoso, per una birra. Aspettando che si faccia sera. Scongiurando che non venga subito domani, quando si ritornerà in fabbrica. Crawley nel West Sussex non è distante da Londra, ma sono 45 km di una campagna infinita che non rasserena e dove arriva l’eco delle macerie che il punk sta disseminando.

Tre ragazzi spauriti, angosciati solo all’idea che sarebbero invecchiati a vent’anni non appena sentita la sirena della fabbrica, diventano tre ragazzi immaginari.

Ascoltano il frastuono liberatorio che giunge da Londra, scavano tra i dischi dei fratelli più grandi e spunta Hendrix, Bowie, e anche qualche stropicciato bluesman.

Però vogliono un loro suono, e lo trovano. Con una semplicità che nessuno si aspettava. Un suono dissossato, sghembo, sottile, lento, inquieto, e molto vicino al punk. Strano e disorientante, come la copertina che raffigura il trio sotto le spoglie di oggetti domestici: frigorifero – aspirapolvere – abatjour. Nulla è però rassicurante. Tra le quattro mura si annida e nasce l’angoscia. Robert Smith, anche se giovane e senza i capelli ingovernabili e rossetto sbavato, inizia da qui ad indagare il vuoto: riempiendolo di musica sublime.

L’ascesa dei Cure comincia. Boys Don’t cry per un’ignota decisione appare solo l’anno dopo sul disco pubblicato in America (ed è lo stesso di Three Immaginary Boys, solo che ha un altro nome, e aggiunte Killing in Arab e la title track) e una copertina con una montagnola e un sole stilizzati. Ma l’atmosfera è la stessa, non si sfugge alle parole di Smith, anche se la chitarra allegra di Boys Dont’ Cry potrebbe far pensare ad una pausa dal dolore esistenziale, già matriche dei Cure. È solo che è più semplice, più vero: un sentimento di molti ragazzi

So I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try to laugh about it
Hiding the tears in my eyes
Because boys don’t cry