La vita agra

Cosa si scatena in un intellettuale anarchico se in un’esplosione in miniera muoiono 43 persone?
Si reca in città per vendicarsi, scrive un romanzo, o entrambe le cose. La vita agra di Luciano Bianciardi, uscito nel 1962, trova qui la sua genesi.
Negli anni del boom economico, prima che la contestazione mettesse tutto in discussione, Bianciardi fa trapelare quell’insofferenza per l’ipocrisia borghese con qualche anno di anticipo e, per questo, rimarrà isolato nella sua battaglia.
Una battaglia i cui toni si smussano giorno dopo giorno perché la vita di città è grigia, ipnotica, conformante. Così la storia del traduttore in esilio volontario diventa un urlo, scritto nello stile beatnik dei modelli americani, rivolto contro il facile consumo, l’alienazione del lavoro e della metropoli, dove una folla di spettri guarda senza guardare: contro il traffico inviperito, il mondo editoriale, i tabù sessuali.
Ma l’urlo non è che un sussurro a due voci: quelle del protagonista e della sua compagna Anna, isolati eppure integrati, loro malgrado, nei ritmi della crescita industriale e nell’ostile accondiscendenza della società, la stessa capace di lasciare un ubriaco morire per strada piuttosto che agitare la propria coscienza.
Nella solitudine del lavoro di traduttore si placa anche l’impeto rivoluzionario. Non è una sconfitta: solo il tentativo, tutto umano, di rendere per poche ore quella vita un po’ meno agra.

(A. V.)